Gli scappava spesso la mano, era più forte di lui. Per Evelyn Waugh – figlio di famiglia, solida preparazione classica, talento naturale per la scrittura asciutta – il gusto per la battuta era irresistibile. Anche quando inopportuna, anche quando rischiava di trasformarsi in gaffe, anche quando gli avrebbe procurato più di un problema. Come per esempio essere licenziato, cosa che accadeva piuttosto regolarmente. Ma era giornalista, Waugh. Di quelli che non riescono a prendersi sul serio e hanno gli antidoti giusti per non prendere sul serio quello che raccontano.
Immaginate allora questo inglese atipico a seguire la guerra in Abissinia embedded all´esercito italiano nel ´34. Tra l´inazione indigena (che spesso si colora di venature razziste), la pomposa macchina retorica fascista (che quasi sempre viene vista con una certa pietas per i burocrati costretti a farsene portatori), e la cialtroneria di un centinaio di reporter che devono sfamare giornali lontani che chiedono storie esotiche, Waugh non poteva essere più a suo agio. Il risultato è In Abissinia.
Reportage di guerra, in un certo senso, più che altro una guerra vista poco e male al sicuro in qualche albergo. Taccuini di viaggio, in un certo senso, la mezza pagina per descrivere il viaggio da Londra a Gibuti sono un manuale di diaristica. Trattato sulle miserie umane, in un certo senso, dove tutto è cinismo. Come in certi uomini che troppo avevano sperato e, traditi, tirano a campare fingendo di far finta di niente.
Twitter: daolivero
Evelyn Waugh, In abissinia, Adelphi, 232 pagine, 18 euro